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giovedì 5 luglio 2012

Dal pubblico al privato: l'istruzione annega in un mare d'austerità




200 mln in meno alle università pubbliche, duecento mln in più alle università private! Questa la finanziaria del governo per l'università! Cosa potevamo aspettarci dal governo della Bocconi? L'istruzione annega in un mare d'austerità!
La stessa corrente che da decenni devasta le risorse pubbliche e i nostri salari a favore di banche, imprese e profitti privati sta uccidendo la scuola e l'università pubblica! L'istruzione privata non dovrebbe ricevere un euro dalle casse pubbliche che tutti e tutte noi alimentiamo con tasse altissime senza uno straccio di servizio funzionante e con una didattica sempre più inutile. D'altronde dal governo dei banchieri e dei professori della Bocconi non poteva esserci discontinuità in una politica di spostamento di fondi iniziata negli anni '80 e accelerata dallo scoppio della crisi.
Sono soldi nostri, soldi dell'istruzione pubblica!
Basta regali agli squali, riprendiamoci tutto!


Sulla Spending Review del governo...
a cura di Sbilanciamoci
Si risparmierebbero 700 milioni se si cancellassero i sussidi pubblici che ogni anno vengono erogati alle scuole e alle università private del nostro paese, cattoliche e non solo. Negli ultimi 10 anni sono più di 5 i miliardi di euro che se ne sono andati verso il privato a scapito dell'università e della scuola pubblica, la cui condizione è quella che ben conosciamo.
Come se non bastasse, metà delle scuole pubbliche italiane non rispetta le normative antisismiche, antincendio e non ha il certificato di idoneità statica. Due terzi degli studenti universitari che avrebbero diritto ad una borsa di studio per potersi iscrivere all'università (cioè sono dichiarati idonei) non ricevono nemmeno un euro perché incredibilmente ci sono i bandi ma non ci sono i soldi. Mentre in Francia e in Germania gli studenti che usufruiscono delle borse di studio sono il 25%, in Italia la percentuale scende all'8%. Sarà un caso, ma i laureati in Italia sono il 19% della popolazione giovanile, mentre nell'Unione Europea la media è del 30%.
Lo stesso vale per le residenze universitarie: non ci sono alloggi pubblici per gli studenti e così prolifera il mercato nero degli affitti e i costi per le famiglie si moltiplicano.
Nonostante questo - nonostante i problemi di spesa pubblica - i governi di centrodestra e di centrosinistra si sono permessi di spendere 5 miliardi di euro in 10 anni per far sopravvivere le scuole private (sostenendo gli istituti religiosi) e aiutare le famiglie di chi - avendo redditi elevati - manda i propri figli alle scuole e all'università a pagamento. Meglio cancellare questi sussidi oppure usarli per la scuola pubblica e il diritto allo studio.


Salvatore Cannavò da Ilfattoquotidiano.it
Tra le principali misure di tagli presentati dal governo ai sindacati leggiamo: taglio del personale del pubblico impiego del 10% per i dipendenti e del 20% per i dirigenti. Per due anni, dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2014, lo stipendio dei dipendenti delle società pubbliche non potrà superare quello del 2011 mentre si bloccano le assunzioni dell’80% dal 2012 al 2014 e poi del 100%.
Come non bastasse si riducono ancora, dopo anni e anni in cui lo si fa, i trasferimenti agli Enti locali di 700 milioni per il 2012 che salgono a 1 miliardo dal 2013. Il Fondo sanitario viene ridotto di 3 miliardi. E in tutto questo sferruzzare di tagli il governo riesce a inserire anche 200 milioni aggiuntivi per finanziare le scuole private. Togliendoli, ovviamente, alla ricerca e all’università pubblica.
Si potrebbe ironizzare facilmente ricordando le misure di Tremonti, Brunetta e Gelmini. Si può fare molta nota politica cercando di cogliere le resistenze dei partiti, i malumori del Pd, l’ira dei sindacati (faranno davvero lo sciopero generale?). Quello che vale la pena sottolineare, però, è la direzione di marcia del governo, la volontà espressa da Monti.
E mettere tutto questo a confronto con questa frase: «In un nuovo centrosinistra europeo Monti può trovarsi a perfetto agio. È una personalità liberale che con la sua azione può mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti. La sua insistenza sul completamento del mercato unico è giusta. Ha posizioni che a me paiono compatibili con il nostro orizzonte programmatico». Lo ha detto Massimo D’Alema sabato scorso in una intervista al Corriere della Sera, peraltro molto discussa.
Le cose sono due: o D’Alema di politica non capisce nulla oppure il “suo” orizzonte programmatico è davvero disastroso. Abbiamo il sospetto, però, che entrambe le affermazioni siano vere.


L'orgia clientelare
di Francesco Piccioni
Se l'amministrazione pubblica non possiede al suo interno determinate competenze può ricorrere a consulenze esterne, pagate ovviamente con criteri di mercato. In teoria non ci sono obiezioni; in pratica è l'escamotage con cui vengono nutrite clientele politico-imprenditoriali di dimensioni spesso arbitrarie. Tra i «consulenti» possiamo trovare un Enrico Bondi (chiamato a governare proprio la spending review, sembra a titolo gratuito) o un Peppe Dimitri, ex terrorista dei Nar infine morto in un incidente stradale, assunto da Gianni Alemanno quando faceva il mistro dell'agricoltura. Tra questi due livelli si muove un «mare magnum» di figure varie, possibile solo grazie alla facoltà di «nominare» qualcuno senza alcun riscontro di competenza curriculare. Niente da obiettare sulle abilità di Bondi, per restare all'esempio (pur senza dover per questo condividerne le scelte); ma di Dimitri nessuno conosceva almeno una passioncella per il giardinaggio da balcone. Anche in questo caso l'indebolimento del «pubblico» è diventato occasione di arricchimenti «privati», senza peraltro elevare di un millimetro le capacità funzionali. Per eliminare dalla spesa «sprechi e ruberie», in questo ambito, si dovrebbe incentivare la formazione in house delle competenze necessarie e vincolare la richiesta di consulenze esterne all'obbligo di curricula certificati. Naturalmente, dovrebbe esser prevista la condanna al risarcimento integrale all'ente danneggiato (interessi compresi) da parte dell'amministratore pubblico beccato ad «elargire» una consulenza truffaldina a qualche «amico». Se si vuol battere un malcostume, non serve tagliare linearmente (i «raccomandati» si salverebbero lo stesso), ma sanzionare in base a regole e controlli persuasivi.

SPESE MILITARI
La truppa è troppa
a cura di Sbilanciamoci.
Quattro miliardi e 623 milioni in un anno: è l'ammontare delle risorse che potrebbero essere recuperate riducendo le spese militari in Italia nel 2012. Il bilancio della Difesa per quest'anno è pari a 19,895 miliardi di euro, di cui quasi quindici destinati al sovvenzionamento di esercito, marina ed aeronautica, con una crescita del 4,4% rispetto al 2011 dettata principalmente dall'aumento dei costi per il personale. A proposito del personale: in Italia ci sono oggi ben 180.000 militari. Non solo: il numero di comandanti è superiore a quello dei comandati. Tre miliardi di euro potrebbero entrare in cassa decurtando le forze armate di 60.000 unità, portandole così dalle attuali 180.000 a 120.000. Altri 783 milioni di euro potrebbero venire per il 2012 dalla riduzione dei «Programmi d'arma», con la cancellazione degli impegni per la produzione di 90 cacciabombardieri F35 (complessivamente ci costeranno 10 miliardi di euro) e dei finanziamenti previsti quest'anno per la costruzione di 4 sommergibili Fremm e delle due fregate «Orizzonte».
748 milioni di euro potrebbero poi pervenire dal ritiro delle truppe italiane dalla missione in Afghanistan. Inoltre, 72 milioni di euro verrebbero incamerati se si ponesse termine alle operazioni, sbagliate, di pattugliamento delle nostre città ad opera del personale delle forze armate. L'abolizione della cosiddetta mini-naja (cioè del programma «Vivi le Forze Armate, militare per tre settimane») porterebbe in cassa altri 20 milioni.
In tutto 4,62 miliardi da destinare subito, appunto, a usi decisamente più «civili», come il servizio civile nazionale, sovvenzionato con 299 milioni di euro nel 2008 e soltanto 68 nel 2012, e la cooperazione, il cui finanziamento pubblico è stato praticamente azzerato.


SANITÀ IN CONVENZIONE
La bonanza privata
da il manifesto
In questi anni la sanità pubblica è stata massacrata dai tagli delle finanziarie e dalla riduzione dei trasferimenti alle regioni che hanno la responsabilità di organizzare e pagare i costi delle strutture e dei servizi sanitari. A questi tagli si è fatto fronte riducendo i servizi oppure introducendo e facendo lievitare il costo dei ticket. La sanità privata - convenzionata con il pubblico o sussidiata in altre forme - non è stata sfiorata in questi anni dagli interventi di revisione della spesa e dei contributi. Non si tratta ovviamente di ridurre i servizi a favore dei cittadini, ma di rendere più congrue (e meno lucrative) le tariffe rimborsate (i DRG) ai privati e porre un freno agli abusi di interventi spesso non necessari (abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di parti cesarei fatti in strutture private convenzionate con il servizio sanitario nazionale) ma che, essendo rimborsati dal servizio sanitario, si sono moltplicati urbi et orbi, alimentando spesso anche il circuito del malaffare tangentizio (come si è visto nel caso della sanità privata in Lombardia). Una semplice revisione delle convenzioni (e delle tariffe, con una limatura media del 10%) con le strutture private ed un sistematico controllo della congruità di una serie di esami ed interventi - il cui eccesso balza agli occhi ad un semplice confronto con gli altri paesi europei - porterebbe da subito, secondo una stima della campagna Sbilanciamoci!, ad un risparmio di circa 1miliardo e 200milioni. Soldi risparmiati che potrebbero essere investiti nella medicina preventiva e territoriale, largamente deficitaria in Italia (e la cui assenza comporta poi maggiori costi umani - e non solo - in termini di «mortalità evitabile» e di interventi e servizi ex post).

Uscire dall'euro, una scorciatoia

Il rischio dell'impoverimento delle classi subalterne e della egemonia della competitività d'impresa. Ma la crisi è reale e la prospettiva probabile. Il punto è impostare una via d'uscita alternativa, come la ristrutturazione dei debiti pubblici (Bertorello e Corradi)


di Marco Bertorello e Danilo Corradi
vedi il libro "Capitalismo tossico"


La crisi dell'Euro trascina con sé una molteplicità di problemi e potenziali soluzioni. L'economia politica condotta a livello continentale svela tutte le sue contraddizioni, facendo precipitare il contesto e rendendo urgenti scelte di cambiamento radicale. Alla crisi ha corrisposto il riemergere di un'opzione nazionale, che viene interpretata come una prospettiva adeguata ai problemi che abbiamo di fronte. Il rischio è che l'opposizione al rigore e all'austerità slitti verso un progetto di ripiegamento statual-nazionale che non fa i conti con i problemi di ordine globale, rinviando un approccio sistemico e fondamentalmente alternativo. In ogni caso il punto di partenza è rappresentato dal caso greco.
La Grecia esce oppure è fuori?
In un recente intervento Emiliano Brancaccio dava come chiave di lettura della sconfitta di Syriza la sua posizione «palesemente contraddittoria» nel chiedere una rinegoziazione del famoso memorandum, senza affrontare in maniera esplicita le possibili conseguenze derivanti da un eventuale fallimento di tale richiesta. É possibile che Syriza sia stata reticente nel ragionare in dettaglio sulle conseguenze derivanti da una risposta negativa della Troika, ma era piuttosto chiaro che le conseguenze di una chiusura della trattativa avrebbero condotto alla ristrutturazione unilaterale del debito da parte della Grecia. L'atteggiamento di Syriza, dunque, è stato tattico, dato che erano gli avversari a denunciare pesantemente il suo presunto profilo anti-europeista, ma non si può dire che non agitasse l'unico potere di contrattazione di cui disponeva la Grecia: il suo debito e persino la libertà di circolazione di capitali e merci sul proprio territorio. La pesantezza con cui è stata affrontata la campagna elettorale in Grecia, anche con bordate dal resto del continente, è stata all'insegna dell'isteria euro-si euro-no, come se vi fosse stato un referendum sulla moneta unica, piuttosto che su come uscire dalla crisi europea in generale e nello specifico dei suoi debiti sovrani.
La critica di Brancaccio, seppur fondata, appare un po' ingenerosa. Indubbiamente la ristrutturazione unilaterale del debito pubblico greco avrebbe potuto implicare l'abbandono della moneta unica. Ma benché questo fosse l'esito più prevedibile, non dovrebbe essere considerato scontato. I tatticismi nella partita con la Grecia non provengono solo dalle forze politiche elleniche, ma anche dal direttorio europeo, Merkel compresa. L'uscita dall'euro di un paese, per quanto piccolo, può avere esiti imprevedibili. Se è vero che in questi due anni alla fuga di capitali all'estero ha corrisposto un progressivo disimpegno finanziario straniero in Grecia, le cifre dell'esposizione di Inghilterra Germania e Francia superano i 68 mld di dollari, a cui va aggiunta l'esposizione del fondo salva stati e degli altri paesi europei1. Inoltre considerato il contesto di difficoltà generalizzata non è possibile escludere un effetto contagio per i paesi in maggiore sofferenza.
Da un po' di tempo si sentiva dire che ormai tutti i soggetti si erano predisposti al fallimento della Grecia, ma sembrava tanto un modo per scongiurare questa evenienza, anziché contenerne gli effetti sul serio. Per ciò non sarebbe stata da escludere la possibilità di alleanze tra paesi dei PIIGS per provare ad affrontare il tema del debito su binari differenti. Insomma una Grecia con Syriza al governo avrebbe potuto giocare una partita per provare a scompaginare le carte, incrinando consolidati equilibri in un contesto in cui di consolidato c'è piuttosto poco.
L'imprevedibilità delle conseguenze in un tale quadro può essere un rischio per tutti, compreso quelli che hanno più da perdere. Esistevano margini politici al di là dei presunti dettami dell'economia. Il testa o croce, fuori o dentro, è in una logica binaria che non sempre vale, tanto più se interviene su architetture e interessi complessi. Persino la bancarotta della finanza pubblica greca non configura automaticamente l'uscita dall'Euro e dall'Unione. Non si hanno procedure per una tale evenienza, nessuno le ha previste, dunque si naviga a vista in un mare aperto, nulla può essere scontato, al fondo contano i pro e contro di ogni opzione. Se si vuole l'unico paragone con qualcosa di simile, per quanto improprio, considerato il maggior grado di integrazione, è quello con gli Usa, dove al fallimento di alcuni Stati non ha corrisposto la loro espulsione dall'Unione. D'altronde per molti versi la Grecia è già tecnicamente fallita e il suo debito è già in corso di ristrutturazione. Come vedremo allora la partita non è se fallire o meno, ma come farlo.
Con ciò non si può escludere una precipitazione del confronto-scontro e un'uscita della Grecia dall'Euro e persino dall'Unione Europea. Da questo punto di vista l'ultimo programma presentato da Syriza non era affatto reticente, in quanto non solo si confermava il no al memorandum, ma si parlava dell'abolizione delle leggi sui minimi salariali e pensionistici, i licenziamenti, insieme a processi di rinazionalizzazioni del sistema bancario e della nazionalizzazione delle principali industrie strategiche del paese. Un progetto che implicitamente accettava la difficile sfida di un potenziale isolamento, tentando di riprendere le redini principali dell'economia per reggere la botta. Per tentare di difendere i soggetti maggiormente colpiti da questi anni di austerity.
Quello su cui vale la pena riflettere è se tale prospettiva debba rappresentare l'obiettivo di una politica alternativa all'esistente, in quanto costituirebbe il modo più efficace per uscire o per lo meno attenuare la crisi.


Euro-Totem

Quando si parla di fallimento dell'Euro oppure di fuoriuscita dall'Euro, la moneta unica viene concepita come un Totem, cioè uno strumento praticamente divino e dunque incontestabile, l'unico a cui appellarsi per ricchezza e benessere. Anche se il tenore della retorica in questi anni si è ridotto, viene considerato un obiettivo irreversibile e l'unico che può condurci al di fuori della crisi. Senza nessuna relativizzazione, senza considerarne i suoi limiti. Ma questi incominciano ad essere discussi anche in alcuni ambienti economici più attenti alla sostanza e meno all'ideologia. Persino nel campo degli estimatori fa breccia una critica ai magri risultati ottenuti in dieci anni. Vediamoli ad oggi.
Nell'Unione Monetaria Europea si sono registrati tassi di inflazione simili a quelli registrati al di fuori dell'Eurozona (Danimarca, Svezia e Regno Unito) e tassi di crescita di certo non superiori. Va aggiunto che nel frattempo si sono accumulati all'interno dei paesi Euro squilibri e fragilità crescenti, andando ad approfondire divergenze nei cicli economici. Infine l'integrazione finanziaria ha favorito una sperequazione nel costo del capitale. Simbolicamente possiamo riassumere individuando una prima area centro-europea che ha sostanzialmente guadagnato dalla moneta unica e una periferia che ha visto indebolire ulteriormente la propria posizione, con la Francia in una posizione intermedia, ma che va scivolando verso la seconda piuttosto che verso la prima. L'unico dato incontestabilmente positivo risulta il modesto tasso di interesse, mentre appare più dubbio negli effetti il contenimento dell'inflazione.
Per comprendere adeguatamente il senso di marcia della moneta unica, però, non si può astrarre dal contesto in cui è sorto. Un prezioso testo dell'economista Jacques Sapir [Bisogna uscire dall'euro?, Ombre corte, 2012] sottolinea come l'Europa e successivamente la moneta unica siano la risposta a livello continentale alle trasformazioni dell'economia globale. L'Euro è la risposta ai processi di finanziarizzazione combinati con la crisi dell'economia reale. Cioè è il tentativo di arginare il processo di arretramento dell'Europa su scala mondiale. In questo vortice alcuni paesi hanno individuato nell'Euro un potenziale paracadute. Considerato che tale processo è sempre la risultante di rapporti di forza preesistenti, il nucleo centro-europeo a guida tedesca è il soggetto che è riuscito a imporre un profilo dell'unione monetaria maggiormente corrispondente ai propri interessi. Ciò non esclude che le classi dirigenti dei paesi mediterranei e periferici individuassero convenienze sufficienti per partecipare alla costituzione dell'Euro. Per riassumere la Germania aveva bisogno di orientare la propria economia all'export e creare un deciso surplus commerciale per far fronte ad un repentino invecchiamento demografico e all'indebolimento del proprio apparato industriale sotto i colpi dei processi finanziari e della globalizzazione. Quest'ultimi problemi troppo spesso non vengono considerati adeguatamente, troppo spesso non si valuta come queste tendenze abbiano coinvolto tutti i paesi occidentali, compresa la Germania segnata da un manufatturiero avanzato. L'Euro, dunque, nasce all'insegna di economie che individuano l'export come il segmento trainante in un contesto caratterizzato da iper-competitività. Libertà dei movimenti di capitale coniugata con competitività interna (continentale) ed estera. Queste sono le regole del gioco per difendersi e allo stesso tempo per ottenere una sufficiente convergenza tra paesi tanto differenti. Questi obiettivi, però, a dieci anni non risultano interamente raggiunti. Anzi le divergenze aumentano e alcune dinamiche strutturali determinano l'esplodere della crisi.
La lettura che incrimina i paesi poco virtuosi, accusati di irresponsabilità fiscale, come la definisce Paul Krugman una sorta di «elenizzazione del discorso economico europeo» appare fuorviante, in quanto come osserva il Nobel americano ancora prima della crisi quei paesi stavano migliorando la propria posizione debitoria in rapporto al Pil. Le ragioni, dunque, sono più complesse. Esistono cause strutturali di ogni singolo paese, come l'entità del debito pubblico, la corruzione e la debolezza del sistema fiscale in Italia, oppure la disoccupazione spagnola, il grado di corruzione e la debolezza industriale greca, ma in questi anni sono emersi anche problemi specificatamente di quello che Michel Husson definisce «sistema -euro». La moneta unica, infatti, ha determinato un contesto monetario rigido, in cui in assenza di un regime fiscale comune, le sperequazioni esistenti non possono essere contenute attraverso una svalutazione monetaria. Per ciò tale processo è perseguito attraverso quella che viene detta «svalutazione interna», costituita dall'austerità salariale. Cioè quando un paese, come è il caso di quelli europei, non può più svalutare la propria moneta, per rendere le proprie merci maggiormente competitive deve ricorrere a politiche di svalutazione salariale. Considerato che per molti paesi dell'area Euro la percentuale di scambi commerciali effettuati con la moneta comune ruota attorno al 60%, si capisce la necessità di tali politiche di contenimento. Queste scelte però hanno come effetti a cascata un'ulteriore depressione della domanda interna e conseguentemente una contrazione della base fiscale imponibile, determinando un vero e proprio circolo vizioso. C'è poi un ultimo problema di ordine strutturale. Dentro il vortice competitivo la sperequazione tra paesi centrali e periferici si è acuita in quanto paesi come la Germania hanno aumentato la propria capacità competitiva attraverso una deregolamentazione del mercato del lavoro e una depressione della domanda interna che non ha permesso a fronte di un crescente surplus di produrre ricadute positive per gli altri paesi. Paradossalmente se i paesi periferici avessero contenuto le importazioni a debito di questi anni, e si fossero riallineati alle performance della Germania la depressione a livello continentale sarebbe più accentuata.
Infine alla prolungata contrazione delle attività e della profittabilità delle attività nell'economia reale ha corrisposto un dinamismo nel movimento dei capitali in cerca di nuovi e più elevati profitti per l'Europa. Grecia e Spagna dopo l'unificazione monetaria sono stati considerati paesi più solidi che in passato attraendo enormi quantità di flussi di denaro contribuendo in maniera significativa alla creazione di bolle speculative. Sono questi paesi che hanno provato a vivere al di sopra delle loro possibilità oppure sono i capitali esteri che lì hanno investito a provare a guadagnare al di sopra del consentito?
Uscire dall'Euro?

Arriviamo allora alla fatidica domanda di questi tempi: per uscire dalla crisi si rende necessario uscire dall'Euro? La destra sembrerebbe non avere molti dubbi, a sinistra si va affermando un crescendo di dichiarazioni in tal senso. Indubbiamente esistono contraddizioni sistemiche della moneta unica che ulteriormente complicano le prospettive di molti paesi aderenti, ma limitarsi a centrare i problemi su quel piano, senza considerare il contesto di fondo, significa non provare a risolvere le questioni alla radice. Auspicare il ritorno alla Lira o alla Peseta generalmente significa indicare una strada percorribile per far tornare nuovamente competitivi paesi come l'Italia e la Spagna. Il problema invece è che il sistema competitivo oggi mostra la corda. E' il principio della competizione nell'economia di mercato a produrre una fase di crisi che sembra permanente. Non è un caso che la crisi sia crisi ambientale, economica e sociale insieme, sia crisi trasversale nei vari continenti. La tanto decantata crescita economica non è data in maniera stabile in tutti i paesi occidentali e arretra in quelli emergenti. Le contro-riforme ovunque danno respiro alle borse, ma fanno precipitare le condizioni materiali di milioni di individui. All'impoverimento delle classi subalterne si aggiunge quello delle classi medie e nella competizione globale assistiamo al venir meno anche di tanta parte di quell'impresa che non regge i nuovi ritmi e il grado di concentrazione raggiunto.
Queste ragioni sistemiche impediscono di credere semplicemente a un ritorno ad economie nazionali in definitiva sempre in competizione tra loro. Non è da una polverizzazione geografica del livello di competizione che possiamo pensare di uscire dall'attuale crisi. In un contesto globale di relativa salute, come all'inizio degli anni Novanta, la svalutazione competitiva della Lira ha consentito un respiro di alcuni anni, ma non ha certo favorito un'inversione di tendenza, nel cambiare i rapporti di forza tra le classi, anzi da quel momento le disparità tra profitti e salari sono volate anche in Italia.
Il ritorno ai fondamentali economici è il passaggio necessario per comprendere quale strada intraprendere. Le alchimie istituzionali e monetarie non possono fare supplenza al mancato funzionamento dei meccanismi fondamentali del capitalismo. Da un lato c'è chi propone eurobond e possibilità di stampare moneta per la Bce, con tutte le subordinate del sistema bancario unico e norme antispread, dall'altro c'è chi propone il ritorno a monete nazionali per poter svalutare e competere meglio. Nessuno si pone il problema dei meccanismi di mercato siano essi operativi su scala sovranazionale o meno. Monti esulta per il recente accordo europeo e mal tollera le dichiarazioni del presidente di Confindustria Squinzi sulla crisi paragonata alla guerra. Dice che è più facile trovarsi d'accordo con la Merkel in Europa che con alcuni rappresentanti delle parti sociali in Italia. Ma i dati di Confindustria descrivono meglio il contesto in cui stiamo vivendo. Da questo punto di vista l'uscita dall'Euro rischia di essere una scorciatoia.
- Innanzitutto appare un'operazione che risponde a differenti interessi d'impresa in funzione del livello di integrazione economica globale raggiunto, ma difficilmente sarebbero tutelati gli interessi del lavoro.
- Secondariamente un'uscita dall'Euro oltre a rappresentare un'incognita nelle procedure e per le controversie a cui darebbe vita, per esempio sulla possibilità o meno di convertire il valore dei mutui nella nuova moneta, provocherebbe un immediato aumento del costo della vita, soprattutto in un paese come l'Italia che è cronicamente dipendente da materie prime e risorse energetiche. Il passaggio, dunque, sarebbe inevitabilmente pagato a caro prezzo dalle classi subalterne.
Quest'ultimi problemi però non devono indurre a derubricare in modo perentorio la possibilità di un'uscita dall'Euro (processo che sarebbe sempre determinato perlomeno da due soggetti quello che esce e quelli che pongono condizioni talmente capestro da costringere a uscire), ma semplicemente a non considerarlo la via maestra per uscire dalle attuali difficoltà. Perché queste si riproporrebbero su scala locale.
Differentemente si pone immediatamente l'obiettivo di una ristrutturazione dei debiti pubblici in un'ottica sociale, capace di essere l'architrave su cui ridefinire un'idea di Europa alternativa all'attuale Unione Europea. L'uscita dall'Euro è una subordinata di questo scontro. E qui il problema che pone Brancaccio su chi gestisce i processi per uscire dalla crisi è reale, sia per la dissoluzione della moneta unica sia per la ristrutturazione dei debiti non è indifferente chi sarà il soggetto politicamente egemone che condurrà la partita. In questo caso i rapporti di forza tra i gruppi sociali saranno decisivi. Quello però che è urgente in questa fase è una riconversione ecologica e sociale dell'economia che non può avvenire sotto le regole della competizione di mercato, ma attraverso un recupero di investimenti pubblici, nazionalizzazioni del sistema bancario, inibizione della finanza, remissione dei debiti illegittimi, redistribuzione della ricchezza, sperimentazione di nuove forme di pianificazione.

sabato 16 giugno 2012

Il futuro degli indignati

Un movimento di nuova politicizzazione che, senza ancora invertire i rapporti di forza con il capitalismo e la sua crisi, indica una nuova forma della politica e un nuovo possibile ciclo di lotte.
di Josep Maria Antentas e Esther Vivas* dalla rivista Erre, n.48 - "Il Movimento Necessario"



Man mano che ci lasciamo alle spalle la scossa iniziale del 15M e il successivo avvio del movimento Occupy possiamo iniziare ad analizzare in maniera più chiara gli eventi e le prospettive a medio termine del nuovo ciclo apertosi nel 2011.
Il 15M e Occupy, il primo con più forza del secondo, hanno cambiato radicalmente il clima e il paesaggio politico e il discorso pubblico, mettendo in risalto nuovi temi nell’agenda politica e mediatica e dando nuovi spazi e significati al malessere fino ad allora latente e passivo di gran parte della popolazione. Hanno rilegittimato la protesta sociale a prescindere da politici e governanti, che vedono ora la loro realtà profondamente modificata. Anche in quei casi dove il movimento non ha raggiunto ampi settori sociali e si limita generalmente a minoranze di attivismo giovanile, come negli Sati Uniti, la sua stessa esistenza riabilita la protesta ed ha un impatto nella coscienza e nella percezione nella maggioranza dei lavoratori, nello stesso modo in cui il movimento per i diritti civili fece negli anni Sessanta dopo gli oscuri anni Cinquanta.
La legittimazione sociale raggiunta dal movimento degli indignati parla da sola. Nel caso spagnolo la sua grandezza praticamente non ha precedenti dalla Transizione in termini di imponenza, radicamento e diffusione territoriale, impatto nell’agenda politica e simpatia nell’opinione pubblica. Secondo un’inchiesta di Metroscopia nel giugno del 2011 circa l’80 per cento dei cittadini dello Stato spagnolo dava ragione alle rivendicazioni del movimento. Un’altra inchiesta dello stesso periodo del Centro de Investigaciones Sociológicas concludeva che più del 70 per cento lo valutava positivamente.
Negli Stati Uniti, sebbene sia un movimento con un minor radicamento e sviluppatosi in un contesto ostile e particolarmente spoliticizzato come quello della società nordamericana, le simpatie che ha risvegliato in ampi settori della popolazione sono evidenti. Tanto che tre settimane dopo l’avvio di Occupy Wall Street la rivista Time segnalava che il 25 per cento dei cittadini aveva un’opinione del movimento molto positiva e il 29 per cento positiva, mentre una inchiesta della Cbs e del New York Times rilevava che il 43 per cento dei nordamericani era d’accordo con gli obiettivi del movimento, rispetto al 27 per cento che non lo era. Il suo discorso entra in connessione con il sentimento ed il pensiero di una fetta significativa dei lavoratori statunitensi e fornisce coerenza politica e intellettuale alle intuizioni di molti di loro sull’ingiustizia sociale e la natura della crisi.
Fin dalla sua comparsa, il movimento ha contribuito ad un forte processo di ripoliticizzazione della società, di nuovo interesse verso le questioni collettive ed anche alla rioccupazione sociale dello spazio pubblico usurpato quotidianamente dagli interessi privati. Ha significato un apprendistato collettivo dell’esercizio della democrazia e la pratica dell’autorganizzazione. Ci ha insegnato a “imparare a disimparare” per disfarci delle idee dominanti sulla realtà ed ha contribuito a diffondere – nell’accezione gramsciana del termine – un “senso comune alternativo”.
Il ciclo del movimento indignad@s e Occupy non solo è molto più potente, a causa del drammatico scenario nel quale si sviluppa, del ciclo internazionale del movimento “antiglobalizzazione” degli anni Novanta e il primo decennio del 2000 che ha costituito la prima risposta alla trasformazione del mondo in un grande mercato globale; è anche un movimento molto più politicizzato. Interpella direttamente la politica, i politici e i partiti. Invade e destabilizza i processi elettorali e porta dentro di sé riflessi delle rivoluzioni arabe. Però questa politicizzazione, come abbiamo già osservato, riparte da molto lontano, in un contesto di confusione ideologica e culturale, di assenza di riferimenti politici e mancanza di chiarezza strategica. Pierre Rousset, ragionando sulle lotte degli anni Novanta e 2000 afferma a ragione: “La politicizzazione c’è stata, con il diffondersi di una critica sistemica all’ordine dominante e l’aspirazione ad un ‘altro mondo possibile’ al di fuori dalle tendenze neoliberali dominanti, ma questa politicizzazione si è sviluppata su basi ideologiche molto fragili e senza far rinascere un pensiero strategico strutturato, discusso collettivamente”. Possiamo applicare questa riflessione alla dinamica attuale, con la differenza importante che la natura della crisi chiarisce in misura maggiore (ma ancora insufficiente) la realtà e lo specifico funzionamento del sistema. L’accelerazione della crisi, gli attacchi e le resistenze accelerano l’apprendimento e la politicizzazione. Rischi e possibilità convivono.
Se il ciclo che si è aperto nel 2011 ha trasmesso qualche messaggio verso “quelli in basso” (gli oppressi), questo è la speranza nelle capacità collettive di cambiare le cose, nel “noi”, nel poter essere soggetto attivo, e non oggetti passivi delle necessità del capitale e della sua logica di profitto e concorrenza. La speranza di smettere di essere le marionette dell’1 per cento.
L’entusiasmo che il movimento ha scatenato in quelli che vogliono “cambiare il mondo dalle fondamenta” è direttamente proporzionale all’inquietudine che ha generato nei settori dominanti della società, interpellati improvvisamente da un attore nuovo che sfida il loro monopolio sulle questioni collettive e la vita pubblica e mette in questione le definizioni ufficiali della crisi.
Siamo all’inizio di un nuovo ciclo il cui impulso ha avuto una forza variabile a seconda del paese. Il 15M e Occupy, in maniera specifica, sono state il calcio di inizio e una specie di precursore di quello che potrà avvenire. Non siamo di fronte ad un fenomeno episodico e congiunturale, fugace, ma all’alba di una nuova ondata di contestazione che esprime un magma sotterraneo che non è destinato ad evaporare. Il suo sviluppo non sarà certamente lineare, ma discontinuo e con alti e bassi, come si è potuto constatare questo autunno nel caso dello Stato spagnolo.
In Europa e Stati Uniti la marea indignata non ha raggiunto ancora la consistenza sufficiente per provocare un cambio di rotta per frenare gli attacchi sociali sempre più forti, però certamente è stata una sfida senza precedenti ad un neoliberismo dalla legittimità malandata e al tentativo di socializzare i costi della crisi, assunto che fino al 15M sembrava incontestabile. L’ondata di lotte in corso ha implicato una “modifica brutale delle relazioni tra il possibile e l’impossibile”, nelle parole di Alan Badiou, malgrado il contesto di condizioni avverse nel quale il movimento ha luogo e con un forte deterioramento dei rapporti di forza globali che rende estremamente difficile ottenere vittorie.
Uno dei punti deboli di questo nuovo ciclo, che segue una dinamica già presente nelle resistenze degli anni Novanta alla mercificazione del pianeta, è il fatto che le lotte non si traducono in organizzazione. Non c’è una crescita significativa delle organizzazioni alternative esistenti siano esse politiche, sindacali o sociali, né l’emergere su grande scala di nuove forme stabili di partecipazione come risultato della radicalizzazione in corso, al di là delle assemblee di quartiere. Sindacati alternativi, partiti anticapitalisti, associazioni di quartiere..., ognuna rispetto alle proprie dimensioni, hanno difficoltà nel tradurre in avanzamenti organizzativi la loro crescente influenza sociale. Il Che a proposito ci ricordava che “se non esiste organizzazione, le idee, dopo il loro slancio iniziale, diventano meno efficaci”.
Le forme organizzative che prenderà la politica rivoluzionaria del futuro si stanno definendo. Come è successo in momenti simili, le resistenze emergenti sono una prima risposta sociale il cui risultato riconfigurerà il panorama politico, sociale ed intellettuale del mondo che verrà. In questo contesto di debolezza di fronte al capitale ma anche di rilancio della combattività sociale, di degrado sociale ma anche del fiorire di nuove esperienze di autorganizzazione, la sfida fondamentale per i sindacati alternativi, le organizzazioni politiche anticapitaliste, le associazioni di quartiere ecc... è contribuire a promuovere nuove esperienze e contaminarsi con esse, senza adattarsi a mode passeggere, nella ricerca di una attualizzazione e di riadeguamento costante dei propri progetti di trasformazione.
La logica del ciclo attuale è difensiva, implica una reazione collettiva ad un attacco generale ad un determinato modello sociale. Inoltre molte lotte hanno un carattere difensivo estremo, quasi disperatamente utopiche, come i tentativi per impedire che parlamenti, consigli di amministrazione universitari, assemblee municipali approvino tagli ed aggiustamenti. Ma questa dinamica difensiva di fondo ha nel suo seno elementi di attacco nel senso di capacità di essere distruttivi e destabilizzanti della routine delle istituzioni. Non ha ottenuto fino ad ora una dinamica significativa di vittorie che permettano un’accumulazione di forze e di passare dalla resistenza al contrattacco. Ci sono state vittorie, però parziali, molto difensive, come nel caso del blocco degli sfratti, all’interno di un quadro globale di avanzata delle politiche di aggiustamento.
Nell’Unione europea “l’offensiva totale” contro i diritti sociali e le libertà personali, la voracità delle politiche di aggiustamento e della repressione può innescare due scenari contrapposti che in realtà sono e saranno compresenti per molto tempo prima della definitiva affermazione dell’uno o dell’altro. Il primo è che avanzi in maniera irrefrenabile il bulldozer delle riforme, schiacci le resistenze che incontra sul suo cammino, e riesca a consolidare un sistema politico sempre più oligarchico e di classe ed un modello di società nella quale regni senza limiti il capitale, nel quale sindacati e movimenti sociali occupino un ruolo marginale. La seconda possibilità è che a furia di tirare troppo la corda la grandezza della tragedia si trasformi in un boomerang sociale del quale abbiamo visto solo gli esordi e si vada accentuando la crisi di legittimità delle istituzioni politiche ed economiche aprendo la porta ad un cambio di paradigma.
La situazione attuale ha aspetti paradossali. I rapporti di forza sono assolutamente a favore del capitale ma allo stesso tempo i capisaldi della sua egemonia mostrano diverse crepe. In un certo senso è come una partita di calcio tra due squadre di differenti categorie, nella quale una si trova intrappolata nella propria metà campo di fronte all’attacco incessante dell’altra. In decenni di offensiva neoliberista non abbiamo smesso un attimo di retrocedere nella nostra metà campo, rinchiuderci nella nostra area ed incassare goal uno dopo l’altro. La crisi, dopo che per alcuni momenti ha disorientato e fatto dubitare di sé stessa la squadra avversaria, non ha fatto altro che aumentare il pressing del capitale e la sua aggressività in campo. Nonostante tutto ha però le sue debolezze. Il centrocampo e la difesa non sono tanto solidi come sembra. È proprio quando una squadra è intrappolata nella propria area, con tutti i giocatori che gli stanno addosso, che emerge la possibilità di giocare in contropiede, pancia a terra.
Infine per avere una visione completa dei rapporti di forza bisogna ricordare che la ribellione indignata coesiste con l’ascesa della “indignazione reazionaria” che nella forma di populismo di destra, del fondamentalismo religioso e della xenofobia avanza nelle classi medie e popolari. Oggi in termini globali, tanto nel caso europeo come su scala mondiale, sono le forze reazionarie che stanno traendo i maggiori vantaggi dalla crisi e dalle disuguaglianze e dalle lacerazioni del mondo mentre la sinistra nel suo insieme è ancora incapace di canalizzare il malessere sociale verso progetti di trasformazione egualitari. Nel caso euromediterraneo il continuo intensificarsi della sottomissione coloniale alla Troika e in particolare se si arriva ad un collasso/espulsione dell’euro, può aprire nuovi spazi all’estrema destra nazionalista, la cui forza in Grecia è evidente.
Nel futuro dell’Europa giocheranno molti fattori e si intrecceranno e si alimenteranno a vicenda dialetticamente le distinte situazioni nazionali, dove l’impatto della crisi, la durezza delle riforme e la forza delle resistenze non sono uguali. In questo senso la situazione greca presenta un’importanza strategica di prim’ordine.
La crisi economiche e sociale, come ci ricorda Sthatis Kouvelakis, si è trasformata in una crisi politica generalizzata – detto in termini gramsciani in una crisi di egemonia – ed in una crisi organica. Banco di prova e laboratorio allo stesso tempo delle politiche di aggiustamento e delle resistenze, l’esito della “tragedia greca” avrà un impatto decisivo su tutta l’Unione europea.
Le terzomondizzazione di una società europea periferica e dalle forti tradizioni di lotta sociale si concluderà con successo? La crisi di egemonia delle classi dominanti diverrà irreversibile e i movimenti popolari saranno capaci di ricomporre un nuovo blocco storico egemonico? Qualunque sia lo scenario finale che si imporrà, i prossimi atti della tragedia del paese ellenico saranno a loro volta alimentati da quello che succederà negli altri paesi dove l’ascesa delle lotte sociali è uno stimolo e una leva per le stesse lotte greche. Così è stato il 15M facendo da catalizzatore e ispiratore europeo del “movimento delle piazze” di maggio/luglio del 2011 che ha avuto il suo epicentro in piazza Syntagma.
Nel mondo arabo il processo rivoluzionario è ancora in piedi. Unito all’espandersi delle libertà democratiche fondamentali in Tunisia ed in Egitto, la caduta di Gheddafi, il principale risultato della “primavera araba” è il ritorno della fiducia nell’azione e nel potere collettivi, che ha messo fine ai sentimenti di impotenza ed esclusione della maggior parte della popolazione e dei lavoratori. Le sollevazioni popolari devono però far fronte ad una feroce repressione in quei paesi dove i regimi rimangono al potere come Siria, Bahrein, Yemen. E dove le dittature sono state abbattute esistono crescenti difficoltà nel portare avanti il processo rivoluzionario, per ottenere trasformazioni economiche e sociali profonde, così come nel contrastare da sinistra la forza dell’islamismo. Considerare finita la rivoluzione o continuarla? È questo il dilemma che attraversa i processi aperti in Tunisia ed Egitto dove le forze conservatrici cercano di ricondurre la dinamica aperta con la caduti dei dittatori ad una transizione ordinata verso regimi semi-democratici formali, ma senza cambi profondi sul terreno economico.
Tutte le grandi crisi della storia del capitalismo hanno portato ad una riorganizzazione delle relazioni sociali e tra le classi. Quello che è in gioco è un’uscita dalla crisi favorevole ai profitti e alle imprese, che rafforzi il dominio del capitale nel seno della società, aggravi le contraddizioni sociali e ambientali e parallelamente vada verso l’ascesa di ideologie reazionario, o un’uscita in chiave solidale ed anticapitalista.
“Non si può essere neutrali in un treno in corsa”, ci ricordava lo storico Howard Zinn nella sua autobiografia, e ancora meno in un treno diretto verso un precipizio com’è l’umanità, riprendendo la lucida metafora di Walter Benjamin. La ribellione de l@s indignat@s e la politica dominante rappresenta due logiche differenti, inconciliabili. Da un lato, l’aspirazione alla giustizia sociale e ad una democrazia reale nel senso più ampio del termine, ossia la capacità di decidere del proprio destino. Dall’altro, i dettami degli interessi padronali e la dittatura del profitto: queste due strade seguono tracciati opposti per l’umanità. Il nostro futuro sarà molto diverso a seconda di quale dei due prevalga.
Né ottimisti né pessimisti come Felice Sventura il pessottimista, il personaggio dell’omonimo romanzo dello scrittore palestinese Emile Habibi, noi attivisti sociali dovremmo rimanere semplicemente “pessottimisti”. “L’impegno politico – ci ricorda Daniel Bensaid – è una scommessa ragionata sul divenire storico. A rischio di perdere tutto e di perdersi”. Non c’è certezza alcuna nella vittoria. La posta per cambiare il mondo si fa “non nell’evidenza della soluzione assicurata, ma nella contingenza irriducibile delle ipotesi”.
Punto di svolta. Nuova fase.
Nulla sarà come prima, Nulla è come prima.
Il presente ci ha aperto una breccia di speranza in un futuro da occupare.
*(parte del capitolo finale del libro Planeta Indignado, Sequitur, 2012)

lunedì 27 febbraio 2012

PRESIDIO NO TAV / Treviso

PRESIDIO NO TAV - TREVISO
 Piazzetta Aldo Moro - 18.00



PRESIDIO DI SOLIDARIETA' NO TAV ! CONTRO L'ALLARGAMENTO DEL CANTIERE! 
SIAMO TUTTI/E NO TAV!

Dopo la grande manifestazione di sabato scorso, 24 ore prima del previsto, sono cominciate le operazioni di per allargamento del cantiere "di interesse strategico" che comporterà gli espropri dei terreni.

L'intera zona è stata militarizzata fin dalla mattina presto ed è iniziato lo sgombero della baita Clarea.

Durante lo sgombero della baita Clarea Luca Abbà, conosciuto attivista No Tav, era salito su un pilone e pressato dalle forze dell'ordine è caduto.

Forte la preoccupazione per la sua salute, dopo una mezz'ora finalmente è stato portato via in ambulanza e poi in elicottero fino al Cto di Torino. Le sue condizioni sono gravi.

Gli attivisti No Tav si stanno concentrando a Giaglione e tutta la zona è presidiata dalle forze dell'ordine.

Viene lanciato l'appello a mobilitarsi in Val di susa e in tutti Italia contro l'ulteriore forzatura e militarizzazione della costruzione della Tav.

Un'opera inutile come hanno gridato in migliaia sabato al corteo in Val di Susa, contro cui opporsi a partire dalla difesa del territorio e del futuro.

Un'opera che nel tempo della crisi diventa ancora più assurda visto che i costi che comporta e che potrebbero avere bel altra destinazione.

L'esproprio dei terreni viene contestato anche da un punto di vista legale. Lo stesso Legal Team parla di “una vera e propria emergenza democratica”.

La manifestazione di sabato aveva dimostrato l'ampia opposizione alla Tav e ai tentativi di criminalizzare, come successo con l'operazione giudiziaria della Procura di Torino, una lotta che parla di un altro modo di pensare e costruire il presente e il futuro.